PER UN TEATRO MODERNO DELL'IDENTITA'

Quando si parla di identità si tende troppo spesso in Sardegna a farla coincidere - con rozza semplicità - con l'uso della lingua sarda: il che è vero, ma solo per metà, dal momento che i significati non vengono prodotti solo dalla lingua, ma anche da tutti i codici che, con la lingua, condividono lo stesso repertorio. In alcune società, come in quella sarda tradizionale, non di rado i significati più funzionali all'azione sociale erano una realizzazione del codice silenzio. A volte il significato vero di un atto linguistico passa non attraverso le parole, ma attraverso uno sguardo, un gesto, una particolare intonazione.

Conviene dunque parlare di un repertorio linguistico e culturale, e riferirsi a quel ventaglio di scelte linguistiche e comportamentali possibili, che riversano i loro valori (o "porzioni di significato") in ogni parola e in ogni atto linguistico.

La produzione di senso era dunque nel passato il risultato di un intreccio di codici tutti attivi e ben radicati nella cultura e nella storia e oggi trasformati o cambiati sia nella struttura che nella funzione. Oggi di questo intreccio sono rimaste (a causa della progressiva emarginazione dagli usi della lingua) trame sfilacciate e sempre meno efficacemente legate alla realtà comunicativa concreta.

Tra i codici che rivestivano una funzione importante nel passato si possono citare la musica, la danza, la poesia, le forme di teatro spontaneo e, soprattutto, quelle ritualizzate delle feste popolari e le gare poetiche.

Il processo di sfaldamento dei codici è andato molto innanzi.

Si pensi a certe forme corali che, sostituendo in non pochi casi la trama limpidamente polifonica del tenore barbaricino, tendono - a volte con la complicità di "maestri" e arrangiatori usciti dai conservatori - a trasformare la ricchissima polifonia sarda in quella piatta e musicalmente povera di certi cori della montagna.

Nella danza assistiamo ormai di frequente a una rinuncia ai modelli coreutici tradizionali, come il circolo (specchio di un fare rituale comunitario da tempo dimenticato), e al passaggio immotivato a certe configurazioni dispersive e cervellotiche. Si pensi a certe strutture a T, a L o a stella direttamente mutuate dalla televisione, e agli allineamenti frontali delle forme coreutiche in senso puramente spettacolare, in cui i danzatori si pongono di fronte al pubblico come attori e interpreti di forme che più non conoscono, se non dal punto di vista passivamente esecutivo.

Ma la disgregazione dell'universo tradizionale del sapere codificato si è riversata come una valanga dalla lingua sugli altri sistemi di segni.

La vita quotidiana e festiva dei sardi era fino a ieri intrisa di una teatralità diffusa, che ancora oggi si può ammirare in quella sorta di iceberg emersi da un fondo culturale di giorno in giorno sempre più piatto che sono le grandi novene popolari (si pensi a San Francesco di Lula), s'Ardia di Sedilo e sa Sartiglia di Oristano, o a ciò che resta degli antichi rituali nella "faradda" sassarese dei candelieri.

Quelle forme teatrali, come vado ripetendo da una trentina di anni, offrono materia e stimoli straordinari per un grande teatro sardo.
Ma a parte alcuni rari esempi, pochi hanno saputo attingere a quell'immenso patrimonio testuale in forme creative e innovative. I più continuano ad adagiarsi in quelle formule ripetitive del cosiddetto teatro dialettale sardo, da molti creduto il vero e autentico teatro sardo, mentre si tratta di forme colte degradate discese dal teatro italiano di secondo e di terzo ordine. In questo teatro non solo la lingua, ma anche la gestione degli spazi e la stessa gestualità si presentano subalterne, poco creative e non di rado irrigidite in stereotipi che poco hanno a che fare con l'identità, e molto col tuffo illusionistico in un universo sognato e mai esistito.

Con l'affievolimento della forza orientatrice e operativa di quei codici rischia così di andar perduto in maniera irreparabile quel sapere di sfondo che contribuiva e in parte ancora contribuisce in maniera determinante a costituire il mondo della vita.

Teatro dell'identità significa dunque riattivare, con la lingua, tutti i codici che alla lingua fanno corona, come la gestualità, l'uso degli spazi e del movimento, la danza, i colori, i profumi, i sapori: dove "riattivare" vuol dire reinventare sulla base di ciò che di volta in volta si vuol dire.

Il teatro di "Fueddu e Gestu" ha queste caratteristiche, frutto di un ascolto attento delle voci e dei suoni della tradizione, ma anche di un'apertura alle forme più interessanti e congeniali del teatro moderno e contemporaneo. Ecco perché la parola, in questo teatro, non è mai sola, ma costantemente accompagnata dal gesto misurato, ritmato, dal gioco bene orchestrato dei registri vocali e dei colori, dal corretto inserimento degli oggetti sardi o ricostruiti sulla base di modelli sardi: merito dei bravi interpreti e/o collaboratori, ma soprattutto di una regìa sempre attenta a un ritmo d'insieme che non cancelli i particolari ma li valorizzi. Non si dimentichi che il regista Giampietro Orrù è anche un raffinato artista, che tende non a rivestire la scena, ma a strutturarla con una intelligente architettura degli spazi e degli oggetti di scena.

Leonardo Sole

 

Cooperativa Teatro Fueddu e Gestu
www.fuedduegestu.it