Don Demetrio, nella sua ingenuità di poeta, ha evitato ogni violenza e ogni prevaricazione, ma ha sulla coscienza un grave peccato: l’inadempienza di una promessa fatta al padre in punto di morte, e cioè quella di lasciare una traccia della famiglia dietro di se.
Il nobile Don Demetrio si trova così, al momento della morte, spogliato d’ogni nobiltà e ritorna alla pura e semplice natura umana, comune a tutti e per tutti identica, nel suo vestito bianco.
A salvarne la memoria e ad attribuirgli la sua porzione di eternità, come creatura spirituale, possono soltanto le opere di cui rimanga memoria.
Don Demetrio ha la fortuna di imbattersi in un giovane a cui affida il suo quaderno, sigillando la sua consegna con queste parole: “vi ho registrato parte di quello che i miei occhi hanno visto in questa traversata, e quello che il mio cuore malato mi dettava”.
Sulla scena la figura donchisciottesca di Don Demetrio Gunales, che ripercorre il suo passato inghiottito da visioni che lo strappano alla realtà come maree sonore. Scenografie vocali e musicali che gli interpreti costruiscono quasi dal nulla.
Musica e visioni si intrecciano e si coagulano in febbricitanti monologhi.
L’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, la storia e le tradizioni di un popolo fiero ma anche isolato s’intersecano tra le pagine del suo quaderno scompaginato dal vento, dal turbine della vita.
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